Photo Karpati Gabor |
Il gusto è soggettivo. Verissimo,
e questa affermazione ha anche una giustificazione genetica. Quello che
chiamiamo “gusto” non comprende l’insieme delle sensazioni che generano il
sapore complessivo di un cibo, ma solo quattro o cinque informazioni percettive
basilari: dolce, salato, amaro, aspro e quello che i giapponesi chiamano umami (il sapore del dado col
glutammato). Tutto il resto nasce dalla combinazione con altre percezioni, come
quella tattile sulla lingua e le pareti della bocca per la consistenza e la
temperatura, il rumore durante la masticazione (croccante o morbido), gli aromi
che arrivano all’olfatto tramite il naso oppure risalgono dall’interno della
bocca e, importantissima, la vista.
Si pensa che il gusto abbia
un’origine evolutiva: il dolce indica infatti la presenza di zuccheri e
carboidrati, fonti energetiche preziose per i nostri antenati ancestrali.
L’amaro invece faceva sospettare la presenza di tossine e alcaloidi pericolosi:
l’apprezzamento dell’amaro si costruisce culturalmente negli anni, infatti i
bambini generalmente non lo possiedono. Però nemmeno una percezione
basilare come questa è uguale per tutti. Ricercatori come Stephen Wooding (link) hanno infatti approfondito una nozione nota da anni in genetica: per alcune
persone (definite taster) una
sostanza chimica, il feniltiocarbamide, risulta amara, mentre per le altre (nontaster) è insapore. Questo ha un
riflesso sulle scelte alimentari, e non solo. Parrebbe infatti che chi lo
avverte amaro ami meno le crucifere (cavoli, verze e broccoli, per esempio), ma in
compenso sia meno incline a fumare.
Insomma, quanto le nostre scelte sono veramente… nostre?
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