sabato 26 ottobre 2013

Sei taster o nontaster?



Photo Karpati Gabor
Il gusto è soggettivo. Verissimo, e questa affermazione ha anche una giustificazione genetica. Quello che chiamiamo “gusto” non comprende l’insieme delle sensazioni che generano il sapore complessivo di un cibo, ma solo quattro o cinque informazioni percettive basilari: dolce, salato, amaro, aspro e quello che i giapponesi chiamano umami (il sapore del dado col glutammato). Tutto il resto nasce dalla combinazione con altre percezioni, come quella tattile sulla lingua e le pareti della bocca per la consistenza e la temperatura, il rumore durante la masticazione (croccante o morbido), gli aromi che arrivano all’olfatto tramite il naso oppure risalgono dall’interno della bocca e, importantissima, la vista.
Si pensa che il gusto abbia un’origine evolutiva: il dolce indica infatti la presenza di zuccheri e carboidrati, fonti energetiche preziose per i nostri antenati ancestrali. L’amaro invece faceva sospettare la presenza di tossine e alcaloidi pericolosi: l’apprezzamento dell’amaro si costruisce culturalmente negli anni, infatti i bambini generalmente non lo possiedono. Però nemmeno una percezione basilare come questa è uguale per tutti. Ricercatori come Stephen Wooding (link) hanno infatti approfondito una nozione nota da anni in genetica: per alcune persone (definite taster) una sostanza chimica, il feniltiocarbamide, risulta amara, mentre per le altre (nontaster) è insapore. Questo ha un riflesso sulle scelte alimentari, e non solo. Parrebbe infatti che chi lo avverte amaro ami meno le crucifere (cavoli, verze e broccoli, per esempio), ma in compenso sia meno incline a fumare.
Insomma, quanto le nostre scelte sono veramente… nostre?

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