lunedì 28 ottobre 2013

In cucina, di notte



In cucina prese un bicchiere dalla credenza e lo riempì dal rubinetto. Lo bevve in piedi guardandosi attorno. La cucina sembrava diversa di notte, illuminata solo dalla luce dei faretti sotto i pensili e da quella continua della luna che entrava dalla finestra. Tutte le superfici erano pulite e il tostapane scintillava: le tracce di tutti i pasti consumati quel giorno, di tutte le persone che avevano mangiato e bevuto, erano sparite, a eccezione di un colapasta solitario appoggiato allo scolapiatti. Lo prese e gli trovò un posto, sistemandolo in una serie di colapasta più grandi.
Sentì un’ondata di affetto per Ginny, che aveva fatto tutto quanto: aveva pulito i ripiani e aspirato le briciole dei cracker a forma di animali di Olivia con l’aspirapolvere e aveva preparato la tovaglietta delle principesse Disney per la colazione della nipote del mattino seguente. Pensò a tutte le sere e le mattine in cui Ginny lo aveva fatto per lui e i ragazzi quando lui portava avanti la sua ditta: si era presa cura di loro, certo, ma aveva anche nutrito l’anima e le ambizioni del marito.

Questo breve scorcio notturno mette in scena tutto un mondo di sentimenti famigliari, ma fa pensare pure a come sia impossibile separare il gesto del preparare e offrire cibo dal contesto. Scegliamo una ricetta in base ai nostri gusti e a quelli di chi mangerà con noi, ovvio, apparecchieremo più o meno bene (oppure non lo faremo affatto) per confortare, motivare, coccolare, respingere o sedurre.
Ma anche la cura della cucina rifletterà il nostro stato d’animo e la nostra forma mentis. Quante volte, nel silenzio della notte, in quella sospensione magica che ricorda il palcoscenico quando la platea è ancora vuota, anche noi abbiamo assaporato il piacere di uno spazio domestico curato e scintillante come fa William? E se quella cura dipende da noi, non ci meritiamo un luogo del conforto, che ci accolga la mattina con il buongiorno della tazza da tè già pronta per accogliere il suo liquido fumante? Magari non apprezzeremmo molto la tovaglietta delle principesse Disney, ma ritrovare una pila di piatti sporchi nel lavello ci farà solo venire voglia di tornare a letto e nascondere la testa sotto il cuscino sperando che il mondo vada avanti senza di noi.
Inoltre, anche le dimensioni influenzano le nostre scelte di fare un piatto o un altro. Se abbiamo pensili capaci di ospitare solo due tegamini  e quattro mug o il nostro piano di lavoro è risicato come un francobollo, vedere sui ricettari lunghe liste di ingredienti e calcolare che ci serviranno vasetti di spezie, il colapasta per le verdure, il cartone delle uova, un’asse per sminuzzare o un tritatutto, più terrine, la teglia e carta da forno per rivestirla, la bilancia, le fruste elettriche, cucchiai di legno, spatole di gomma, mezzaluna e via così... ci farà chiudere il libro con un sospiro demoralizzato e buttare in padella la solita busta di surgelati.
Ci si può organizzare, certo, ma questo implica ripensare il rapporto con lo spazio fisico e quello mentale. Siamo pronti a farlo? Quanto siamo disposti a mettere in gioco per reimpostare un luogo fisiologico come la cucina o, meglio, la nostra relazione con il cibo, noi stessi e chi ci circonda?
Brano tratto da Meg Mitchell More, Mirtilli a colazione, Garzanti, Milano 2012, pagg. 63-64

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