mercoledì 30 ottobre 2013

Che cos'è lo zucchero invertito


Photo Ganyaman401

I lettori attenti delle etichette si saranno già posti questa domanda. Ebbene, il termine in sé ci dice ben poco: si dice «invertito» perché la luce polarizzata, attraversandolo, ruota verso sinistra anziché verso destra, come invece farebbe nel caso del glucosio (che per questa caratteristica si chiama, appunto, anche «destrosio»). Cosa comporta questo in cucina? Nulla.
Il saccarosio, ovvero il comune zucchero da tavola, nell’intestino viene scomposto (idrolisi) nei due zuccheri semplici glucosio e fruttosio. Si può arrivare allo stesso risultato anche industrialmente, aggiungendo al saccarosio l’enzima invertasi. Il risultato sarà un cocktail in varie percentuali di glucosio, fruttosio e saccarosio. La terza via è quella di mischiare a caldo il saccarosio con un acido, come si faceva una volta in fabbrica e come succede tuttora nella nostra cucina quando cuociamo una marmellata di frutti acidi.
Comunque sia, più fruttosio c’è alla fine e più sarà dolce il composto: questa è una caratteristica che ci interessa. Le altre sono: lo zucchero invertito abbassa il punto di congelamento (utile in gelateria), ritarda la cristallizzazione (utile in pasticceria, soprattutto quando si preparano le glasse di copertura) e trattiene l’umidità più del saccarosio (quindi i prodotti da forno si seccano dopo).
Le caratteristiche negative sono invece che è difficile trovare in commercio lo zucchero invertito, e comunque è sempre il frutto di una manipolazione. La soluzione potrebbe essere quella di ricorrere al miele, che assomiglia allo zucchero invertito sotto tutti gli aspetti. L’unico accorgimento è quello di sceglierne un tipo dal sapore molto lieve, come il miele di acacia, per non coprire tutti gli altri.
Il costo sarà più alto rispetto allo zucchero invertito industriale, ma noi dobbiamo forse preparare cento chili di brioche?

lunedì 28 ottobre 2013

In cucina, di notte



In cucina prese un bicchiere dalla credenza e lo riempì dal rubinetto. Lo bevve in piedi guardandosi attorno. La cucina sembrava diversa di notte, illuminata solo dalla luce dei faretti sotto i pensili e da quella continua della luna che entrava dalla finestra. Tutte le superfici erano pulite e il tostapane scintillava: le tracce di tutti i pasti consumati quel giorno, di tutte le persone che avevano mangiato e bevuto, erano sparite, a eccezione di un colapasta solitario appoggiato allo scolapiatti. Lo prese e gli trovò un posto, sistemandolo in una serie di colapasta più grandi.
Sentì un’ondata di affetto per Ginny, che aveva fatto tutto quanto: aveva pulito i ripiani e aspirato le briciole dei cracker a forma di animali di Olivia con l’aspirapolvere e aveva preparato la tovaglietta delle principesse Disney per la colazione della nipote del mattino seguente. Pensò a tutte le sere e le mattine in cui Ginny lo aveva fatto per lui e i ragazzi quando lui portava avanti la sua ditta: si era presa cura di loro, certo, ma aveva anche nutrito l’anima e le ambizioni del marito.

Questo breve scorcio notturno mette in scena tutto un mondo di sentimenti famigliari, ma fa pensare pure a come sia impossibile separare il gesto del preparare e offrire cibo dal contesto. Scegliamo una ricetta in base ai nostri gusti e a quelli di chi mangerà con noi, ovvio, apparecchieremo più o meno bene (oppure non lo faremo affatto) per confortare, motivare, coccolare, respingere o sedurre.
Ma anche la cura della cucina rifletterà il nostro stato d’animo e la nostra forma mentis. Quante volte, nel silenzio della notte, in quella sospensione magica che ricorda il palcoscenico quando la platea è ancora vuota, anche noi abbiamo assaporato il piacere di uno spazio domestico curato e scintillante come fa William? E se quella cura dipende da noi, non ci meritiamo un luogo del conforto, che ci accolga la mattina con il buongiorno della tazza da tè già pronta per accogliere il suo liquido fumante? Magari non apprezzeremmo molto la tovaglietta delle principesse Disney, ma ritrovare una pila di piatti sporchi nel lavello ci farà solo venire voglia di tornare a letto e nascondere la testa sotto il cuscino sperando che il mondo vada avanti senza di noi.
Inoltre, anche le dimensioni influenzano le nostre scelte di fare un piatto o un altro. Se abbiamo pensili capaci di ospitare solo due tegamini  e quattro mug o il nostro piano di lavoro è risicato come un francobollo, vedere sui ricettari lunghe liste di ingredienti e calcolare che ci serviranno vasetti di spezie, il colapasta per le verdure, il cartone delle uova, un’asse per sminuzzare o un tritatutto, più terrine, la teglia e carta da forno per rivestirla, la bilancia, le fruste elettriche, cucchiai di legno, spatole di gomma, mezzaluna e via così... ci farà chiudere il libro con un sospiro demoralizzato e buttare in padella la solita busta di surgelati.
Ci si può organizzare, certo, ma questo implica ripensare il rapporto con lo spazio fisico e quello mentale. Siamo pronti a farlo? Quanto siamo disposti a mettere in gioco per reimpostare un luogo fisiologico come la cucina o, meglio, la nostra relazione con il cibo, noi stessi e chi ci circonda?
Brano tratto da Meg Mitchell More, Mirtilli a colazione, Garzanti, Milano 2012, pagg. 63-64

sabato 26 ottobre 2013

Sei taster o nontaster?



Photo Karpati Gabor
Il gusto è soggettivo. Verissimo, e questa affermazione ha anche una giustificazione genetica. Quello che chiamiamo “gusto” non comprende l’insieme delle sensazioni che generano il sapore complessivo di un cibo, ma solo quattro o cinque informazioni percettive basilari: dolce, salato, amaro, aspro e quello che i giapponesi chiamano umami (il sapore del dado col glutammato). Tutto il resto nasce dalla combinazione con altre percezioni, come quella tattile sulla lingua e le pareti della bocca per la consistenza e la temperatura, il rumore durante la masticazione (croccante o morbido), gli aromi che arrivano all’olfatto tramite il naso oppure risalgono dall’interno della bocca e, importantissima, la vista.
Si pensa che il gusto abbia un’origine evolutiva: il dolce indica infatti la presenza di zuccheri e carboidrati, fonti energetiche preziose per i nostri antenati ancestrali. L’amaro invece faceva sospettare la presenza di tossine e alcaloidi pericolosi: l’apprezzamento dell’amaro si costruisce culturalmente negli anni, infatti i bambini generalmente non lo possiedono. Però nemmeno una percezione basilare come questa è uguale per tutti. Ricercatori come Stephen Wooding (link) hanno infatti approfondito una nozione nota da anni in genetica: per alcune persone (definite taster) una sostanza chimica, il feniltiocarbamide, risulta amara, mentre per le altre (nontaster) è insapore. Questo ha un riflesso sulle scelte alimentari, e non solo. Parrebbe infatti che chi lo avverte amaro ami meno le crucifere (cavoli, verze e broccoli, per esempio), ma in compenso sia meno incline a fumare.
Insomma, quanto le nostre scelte sono veramente… nostre?

mercoledì 23 ottobre 2013

Di cosa parliamo quando parliamo di cibo



«Quando i figli erano neonati, mi ammazzavo di fatica, ma mi sentivo bene perché impegnata totalmente nel fare e ancora ignara del risultato. Se i bambini fossero torte, Viola, questa è la fase in cui le madri si divertono a impastare e a mescolare gli ingredienti, senza alcuna ricetta che indichi le giuste percentuali. E un giorno i figli sono grandi, la torta esce dal forno, e le madri finalmente l’assaggiano. Ne valutano pregi e difetti. Scoprono che forse avrebbero potuto mettere più zucchero e meno cioccolato, amalgamare meglio il burro con le uova, ridurre i tempi di cottura. Ma ormai quello che è fatto è fatto, tornare indietro non si può. [...] E allora alle madri non basterà tutta la vita per accettare le piccole grandi imperfezioni della loro torta e per dire ugualmente al mondo, per dire a tutti quelli che cercheranno di convincerle del contrario, questa torta è buonissima, amo questa torta in qualunque modo sia venuta, perché è mia, l’ho fatta io, è l’unica torta che ho, l’unica per cui è valsa la pena di restare qui e respirare.»
tratto da Nicoletta Bortolotti, E qualcosa rimane, Sperling & Kupfer, Milano 2012, pag. 36.

martedì 15 ottobre 2013

La meraviglia delle piccole cose e la dieta come riflesso di sé



Statistiche alla mano, buttiamo via un sacco di cibo. Statistiche alla mano, siamo tutti a dieta. Le due cose sono forse correlate? E quali sovrasensi diamo al semplice atto di mangiare? Mette in scena il rapporto conflittuale e bislacco con il cibo e le diete un divertente libro di Dawn French, La meraviglia delle piccole cose (leggereditore, Roma 2011), ritratto di famiglia nella provincia inglese.
Dora sta per compiere diciotto anni e ha un rapporto difficile con la madre Mo, psicologa specializzata proprio nel trattamento degli adolescenti. Dora pensa di essere originale, certo incomprensibile per la mamma, invece segue punto per punto il copione standard adolescenziale: rifiuto della figura materna, della scuola e alla fin fine di sé, aggressività, instabilità emotiva, negazione della propria bellezza, diete assurde, capelli decolorati, disastrosi esperimenti nell’abbigliamento, velleità artistiche... Ma immaginiamo sappiate di cosa parliamo.
Esemplare è il suo atteggiamento sconclusionato verso l’alimentazione, con una strampalata dieta dissociata che reinterpreta l’espressione «mangiare in bianco».
Penso che ingerire solo cibo bianco faccia davvero molto bene. Funziona al 120%. Non riesco a credere a tutte le cose buone che si possono mangiare. Ieri, ho mangiato pane, pasta, maionese, ciambelle, cioccolato bianco, frullato di vaniglia, zucchero filato, caramelle morbide, formaggio bianco, latte e un sacco di altre cose.
La cosa incredibile e che dopo aver mangiato, ci si sente così sazi che non si vuole ingerire altro fino all’ora della merenda o al pasto successivo. Non sento che i vestiti mi vanno più lenti, ma nei prossimi giorni mi aspetto di cominciare a perder peso. Non vedo l’ora.
All’altro estremo della gamma, anche il marito di Mo è esemplare nell’atteggiamento verso il cibo e il proprio ruolo nel mondo.
A volte provo una sorta di conforto nella familiarità di tutto questo. Sapere che mio marito andrà verso la credenza con l’intento di prendere del sano muesli ma si arrenderà alla sola vista del pane o dei croissant o degli avanzi della sera prima. Se mantiene la sua decisione e mangia del muesli, appare terribilmente abbattuto mentre si siede con l’Independent e la giacca sulla spalliera della sedia, come se gli fosse stato negato l’ultimo sprazzo di gioia nella sua vita. Se cede alla tentazione e mangia un piatto di qualcosa che vuole veramente, sembra un cattivo scolaro che è appena stato lasciato fuori in punizione. Saltella su e giù, fa battute e ci bacia tutti. Piaceri così semplici, piccoli, facilmente raggiunti sono la sostanza della vita per lui. Personalmente penso che dovrebbe abbandonare ogni tentativo di mangiare sano ed essere più felice invece, ma ogni mattina si mette alla prova. Oscar una volta gli chiese perché si fosse fissato con quella storia di mangiare sano. Mio marito gli rispose: «Be’, il fatto è che, come padre di questa famiglia, io sono il protettore, colui che provvede al mantenimento della propria famiglia, il cacciatore-raccoglitore».
Non riuscii a soffocare i risolini.
E voi, che rapporto avete con il cibo e le diete? Nella nostra società, non abbiamo che l’imbarazzo della scelta, dal virtuoso cacciatore-raccoglitore che si vorrebbe porre come modello famigliare ma poi cede di fronte a un croissant, agli esperimenti adolescenziali nella faticosa definizione della propria immagine, passando per certi stereotipi culturali come la madre nutrice dalle forme morbide o la single in carriera ferocemente snella, nonché il pingue uomo di successo e il palestrato evergreen.
Ecco allora il compito di oggi: separare gli stereotipi in cui ci siamo calati dalle nostre più profonde aspirazioni, in modo da pulire la lavagna e poterci poi ridisegnare, un tratto alla volta, il ritratto di ciò che siamo, di ciò che saremo.

lunedì 14 ottobre 2013

16 ottobre 2013, giornata mondiale dell’alimentazione


Uno studio commissionato dal WWF all’Università di Napoli (link) mostra che nel 2012 gli italiani hanno buttato in pattumiera 316 euro di alimenti. Questo per le nostre tasche, ma per l’ambiente il costo è ancora più vertiginoso: 1226 milioni di metri cubi di acqua sprecata per produrre quel cibo mai utilizzato (l’equivalente dell’acqua consumata da circa 19 milioni di italiani), una quantità di gas serra paragonabile al 20% di quello prodotto dai trasporti, il 36% di azoto contenuto nei fertilizzanti chimici evitabile. E gli sprechi incidono in modo diverso sull’ambiente. Per esempio, per produrre 1 chilo di carne bovina servono 594 litri di acqua, mentre ne bastano 15 per 1 chilo di pasta. Se poi pensate alla differenza di costo tra i due alimenti, capirete anche come un simile spreco si rifletta sul budget famigliare.
Insomma, avremmo più acqua, nonché aria e terra più pulite semplicemente comperando e sprecando di meno, con grande beneficio del portafogli.
Se volete approfondire l’argomento di cosa possiamo fare, in concreto, noi cittadini, un sito  interessante è quello di Last Minute Market, società spin-off dell’Università degli studi di Bologna. E resta sempre un indispensabile punto di riferimento il WWF, con il programma One Planet Food
Allora, siete pronti a risparmiare e vivere meglio?

mercoledì 9 ottobre 2013

Mangiare è un piacere




Se per dimagrire bastasse sapere cosa fa bene mangiare, saremmo tutti sottili come fogli di carta. Il fatto è che il rapporto con il nostro corpo non si può ridurre all'appuntamento mattutino con la bilancia. Noi siamo molto di più.
Un corpo in forma è anche pieno di energia e di quell'atteggiamento positivo verso il mondo che ci fa raggiungere traguardi capaci di stupire noi stessi per primi. E tutto è legato: i cibi adatti a noi e un'attività fisica piacevole ci liberano dalle zavorre fisiche ed emotive, ci inondano di ormoni del benessere e ci fanno ripensare alla tavola come al luogo della soddisfazione anziché come a un campo di battaglia disseminato di mine.
Se infatti la dieta dei gruppi sanguigni è stata seguita da milioni di persone al mondo è perché, sostanzialmente, funziona. Ma non basta.
Ne abbiamo voluto fare la versione made in Italy, ampliando le premesse già presenti nei volumi del dottor Peter D'Adamo, perché la cucina italiana è sinonimo di buon gusto e alta qualità. Ed è questa la cifra del programma che andremo insieme a conoscere nel libro: unire la salute al piacere. Ciò vi spingerà a personalizzare sempre più l'approccio al cibo, scoprendo tutto quello che più entra in consonanza con voi, anziché adottare un regime restrittivo solo il tempo strettamente necessario a scendere di un paio di taglie o rimettere a posto gli esami del sangue.
Imparerete a muovervi, passo dopo passo, in un panorama dalla straordinaria varietà, nel pieno rispetto dei vostri gusti, del vostro corpo e della vostra sfera emotiva. 
In effetti, il semplice gesto di mettere qualcosa in bocca ha tutto un mondo dietro. Basti pensare a quello che gli anglosassoni chiamano comfort food, cioè quei cibi − diversi per ognuno di noi − che ci tirano su in un momento di sconforto o ci aiutano a sciogliere il nodo nello stomaco quando siamo sotto stress. Quelli che ci legano alla nostra infanzia e alla mamma, come la mozzarella o il purè di patate.
E poi c'è il cibo della socializzazione: s'è mai visto un Natale passato tutti insieme a sorbire un brodino di pollo? Come è improponibile una cena tra amici a base di barrette proteiche. Ecco allora la scusa pronta per ogni trasgressione: l'occasione speciale.
Però nella vita di eccezioni ne possiamo trovare mille. E poi ci sono le fonti di stress, i dispiaceri, la noia o le frustrazioni da compensare sgranocchiando qualcosa, e qualcos'altro ancora. Quel vuoto dentro che proviamo a colmare riempiendolo di cibo.
Certo, al momento l'umore migliorerà, però a lungo andare questo atteggiamento non ci porterà da nessuna parte. Anzi, grammo su grammo, ci avvolgeremo in un involucro che ostacola ogni nostra attività quotidiana, figuriamoci quelle straordinarie: una passeggiata nel parco ci fa dolere piedi e ginocchia, non abbiamo energie per uscire a ballare, e persino lo shopping diventa fastidioso se dobbiamo chiedere alla commessa una taglia forte.
Ma davvero ne vale la pena? Davvero non vi meritate altre soddisfazioni di una porzione extralarge? Ovviamente, c'è anche il piacere assoluto e primitivo del cibo. Il «piccolo momento d'estasi» di cui parlava Neri Marcorè in Lezioni di cioccolato. E anche Oscar Wilde diceva: «Resisto a tutto, tranne che alle tentazioni». Ma non è più gratificante fare il salto di qualità e trasformarci da contenitori di cibo a contenitori di emozioni, affetti e desideri?
Ecco allora che cambiare approccio verso il mangiare trasforma anche quello verso l'essere. Scegliere gli ingredienti con cura, cucinarli sentendoseli tra le mani, annusare il bouquet di un vino dopo averlo fatto ruotare nel bicchiere intensificherà il piacere della qualità come antidoto alla quantità. E questo si rifletterà su ogni cosa che faremo, dalla pedalata nel parco alla lezione di tango.
Chiudete gli occhi e fate due conti con voi stessi.
Quando è stata l'ultima volta che vi siete piaciuti guardandovi allo specchio?
Che avete respirato sentendovi leggeri ed euforici?
Che avete desiderato fare qualcosa di appagante, fuori degli schemi, solo per voi?
Tutto ciò è possibile.
Il mondo è pieno di occasioni anche a costo zero che aspettano solo di essere scoperte. Basta con l'automatismo di ficcare qualcosa in bocca solo per noia o compensazione!
Torniamo invece a guardare la tavola in un'ottica diversa, giocando con la multisensorialità del cibo. Scopriamo gli alimenti antidepressivi e assaporiamo la sferzata di puro benessere che ci regala muoverci come antichi cacciatori-raccoglitori o fare sport. Assaggiamo piatti e bevande che gratificano insieme il primitivo corpo e la giovanissima mente.
Nella Parte prima recupereremo dunque tutti i preziosi significati di questo atto necessario alla vita, li mescoleremo con le più recenti scoperte genetiche, evolutive, biochimiche e fisiologiche e prepareremo il cocktail più adatto a voi. Vi spiegherete così perché la tal dieta tanto decantata magari è stata un buco nell'acqua per voi. O, peggio, perché prima ha funzionato, ma poi avete ripreso tutti i chili persi e pure qualcuno di più. E scoprirete cosa vi può aiutare a liberarvi da dolori cronici, stanchezza, gonfiori o depressione.
Sapendo cosa mangiare secondo la dieta dei gruppi sanguigni (Parte seconda) individuerete cosa scegliere, come combinarlo e quando metterlo nel piatto, dall'antipasto sfizioso al caffè. E con i test stabilirete se presentate le fragilità caratteristiche dei vari gruppi, e come porvi rimedio.
Infine, nella Parte terza potrete fare i test per delineare il vostro profilo, stabilire il vostro obiettivo più profondo, in modo da tracciare e poi mettere in pratica il programma su misura per voi. Infine vi congratulerete via via con voi stessi per i risultati raggiunti.
Passeremo in rassegna cosa c'è dietro il paradosso francese... e quello cinese, quali sono i cibi veramente afrodisiaci e come il cioccolato può contrastare il cancro, ma anche come riattivare il metabolismo con alcune semplici strategie, come usare le risate al posto delle pillole e come far trasparire a fior di pelle la salute riguadagnata.
La filosofia di base è semplice: se mangiare è un piacere, che sia davvero tale, boccone dopo boccone. Senza perdere il gusto del cibo (e della vita), senza perdersi per strada amici e commensali... e senza perdere il buonumore guardando un piatto di gambi di sedano sconditi.
Prima di iniziare il nostro percorso insieme vorremmo però fare una premessa.
Il libro che avete in mano è il vostro strumento di lavoro.
Fate i test riempiendo le caselle, usatelo come diario per segnare misurazioni e progressi, annotate le parti che vi riguardano e i vostri propositi specifici, marcate con un evidenziatore colorato le ricette che volete provare (abbiamo segnalato come esempi solo quelle che potete facilmente trovare sui libri di cucina regionale o scaricare da internet), integratelo con le vostre considerazioni, scrivete i vostri appunti in ogni spazio bianco, appiccicateci dei post-it con i titoli degli articoli che vi hanno incuriosito o i libri da procurarvi tra quelli segnalati nelle Note e non solo, infilateci pagine ritagliate da riviste, fotocopie, stampate, le liste della spesa per tutta la famiglia secondo la vostra costellazione di gruppi sanguigni e i gusti che conoscete meglio di chiunque altro, e tutto ciò che vi tornerà utile per personalizzare il più possibile il programma. In assoluta libertà e senza renderne conto a nessuno.
Le vostre priorità sono l'integrità e la bellezza delle vostre doti naturali, non quelle dell'ennesimo libro che vi entra in casa. Se scarabocchiare le pagine vi farà riacquistare energia e leggerezza (nel corpo e nello spirito), il sacrificio del volume sarà stato ampiamente ripagato.
Dall’Introduzione di Roberto Mazzoli, Emma Muracchioli, La dieta italiana dei gruppi sanguigni, Sperling & Kupfer, Milano 2013.