giovedì 21 agosto 2014

La ricetta dell'assassino



Il piatto appena atterrato davanti a Billy T. sembrava un’installazione. Fissò interdetto il cibo prima di alzare coltello e forchetta, ma senza sapere da dove cominciare.
− Fegato d’anatra su un letto di funghi di bosco con asparagi e un accenno di amarena − declamò il cameriere. − Bon appétit!
Gli asparagi si ergevano sopra il fegato come un tepee indiano.

Billy T. coordina le indagini per l’omicidio di Brede Ziegler, patron di un ristorante da vip in cui l’apparenza è tutto. Per capire in che ambiente si dovrà muovere, l’ispettore va a pranzare nell’Entré e nota che è stato pensato per essere in assoluta controtendenza rispetto al precedente minimalismo norvegese: sontuose tovaglie drappeggiate fino al pavimento, lampadari prismatici e candelabri d’argento, persino piccoli podi per alcuni tavoli. Eppure il cibo tanto pomposamente presentato lo lascia assai perplesso. Che diavolo significa "un accenno di amarena"?

Il cameriere, che aveva appena portato via i resti catastrofici dell’antipasto, fece un nuovo tentativo. Questa volta il piatto era più grande, ma il cibo altrettanto indecifrabile. Isole di purè di patate erano state allestite a mo’ di fortino intorno a un trancio di sogliola guarnito con striscioline sottili di qualcosa che doveva essere carota e decorato sul dorso da una misteriosa pappetta verde.
− Sembra il gioco dello Shangai, − constatò Billy T. sconsolato. − Come diavolo si mangia una cosa così? Cosa cavolo c’è di sbagliato in una bistecca con le patatine fritte?

Se anche a voi questo genere di ristoranti suscita un sentimento tra la perplessità e l’astio, vi immedesimerete sia con i detective che devono trovare chi ha ucciso lo chef, sia con i suoi assassini. Già, perché Ziegler è stato avvelenato e pure pugnalato. Perché sin troppe persone avrebbero voluto ammazzare questo indisponente personaggio più ciarlatano che cuoco, uno che nella sua camaleontica scalata al successo si era addirittura cambiato nome per nobilitarsi, uno che aveva un appartamento da rivista di design ma una cucina piccola e senza “cuore”.

Il frigorifero assomigliava al caveau di una banca. Era in acciaio massiccio e diviso verticalmente, con il freezer a sinistra e il frigo vero e proprio a destra. Nella parte del freezer, era inserito un dispenser con tasti diversi per il ghiaccio, il ghiaccio tritato, l’acqua e l’acqua gassata. Pareva un fortino preposto a difendere un deposito enorme di cibo, invece conteneva soltanto tre rullini fotografici, una confezione di burro e due bottiglie di champagne.

Magari anche a voi è venuto il dubbio che lo chef tanto osannato del momento per i suoi arditi accostamenti e le tecniche ai confini della NASA vi stesse bellamente prendendo per il naso? Che l’innovativa creatività fosse pirotecnica vacuità?
O forse vi stimola istinti omicidi chi disserta di coltelli giapponesi come fossero Stradivari, chi ordina vini costosi ma non saprebbe capire se ne sta bevendo uno da tetrapack, chi si è talmente votato all’apparenza da perdere gli ormeggi con la sostanza. Chi è talmente impegnato a costruirsi un pulpito da non vedere i problemi − ben più drammatici e concreti di un quarto d'ora di fama − di chi la vita la vive, se ci riesce.
Mentre rimuginate sulla spinosa questione del senso del cibo-spettacolo, e forse sognate anche voi un piatto della mamma, potete continuare a gustarvi il giallo della Holt… questo sì ben cucinato.
Brani tratti da Anne Holt, La ricetta dell’assassino, Einaudi, Torino 2013, pagg. 22, 26-27 e 59.



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