Il piatto appena atterrato davanti a Billy
T. sembrava un’installazione. Fissò interdetto il cibo prima di alzare coltello
e forchetta, ma senza sapere da dove cominciare.
− Fegato d’anatra su un letto di funghi di
bosco con asparagi e un accenno di amarena − declamò il cameriere. − Bon
appétit!
Gli asparagi si ergevano sopra il fegato
come un tepee indiano.
Billy T. coordina le indagini per
l’omicidio di Brede Ziegler, patron di un ristorante da vip in cui l’apparenza è tutto. Per capire in che ambiente si
dovrà muovere, l’ispettore va a pranzare nell’Entré e nota che è stato pensato per essere in assoluta controtendenza
rispetto al precedente minimalismo norvegese: sontuose tovaglie drappeggiate
fino al pavimento, lampadari prismatici e candelabri d’argento, persino piccoli
podi per alcuni tavoli. Eppure il cibo tanto pomposamente presentato lo lascia assai
perplesso. Che diavolo significa "un accenno di amarena"?
Il cameriere, che aveva appena portato via i
resti catastrofici dell’antipasto, fece un nuovo tentativo. Questa volta il
piatto era più grande, ma il cibo altrettanto indecifrabile. Isole di purè di
patate erano state allestite a mo’ di fortino intorno a un trancio di sogliola
guarnito con striscioline sottili di qualcosa che doveva essere carota e
decorato sul dorso da una misteriosa pappetta verde.
− Sembra il gioco dello Shangai, − constatò
Billy T. sconsolato. − Come diavolo si mangia una cosa così? Cosa cavolo c’è di
sbagliato in una bistecca con le patatine fritte?
Se anche a voi questo genere di
ristoranti suscita un sentimento tra la perplessità e l’astio, vi
immedesimerete sia con i detective che devono trovare chi ha ucciso lo chef,
sia con i suoi assassini. Già, perché Ziegler è stato avvelenato e pure pugnalato. Perché sin troppe
persone avrebbero voluto ammazzare questo indisponente personaggio più
ciarlatano che cuoco, uno che nella sua camaleontica scalata al successo si era
addirittura cambiato nome per nobilitarsi, uno che aveva un appartamento da
rivista di design ma una cucina piccola e senza “cuore”.
Il frigorifero assomigliava al caveau di una
banca. Era in acciaio massiccio e diviso verticalmente, con il freezer a
sinistra e il frigo vero e proprio a destra. Nella parte del freezer, era
inserito un dispenser con tasti diversi per il ghiaccio, il ghiaccio tritato,
l’acqua e l’acqua gassata. Pareva un fortino preposto a difendere un deposito
enorme di cibo, invece conteneva soltanto tre rullini fotografici, una
confezione di burro e due bottiglie di champagne.
Magari anche a voi è venuto il
dubbio che lo chef tanto osannato del momento per i suoi arditi accostamenti e
le tecniche ai confini della NASA vi stesse bellamente prendendo per il naso?
Che l’innovativa creatività fosse pirotecnica vacuità?
O forse vi stimola istinti
omicidi chi disserta di coltelli giapponesi come fossero Stradivari, chi ordina
vini costosi ma non saprebbe capire se ne sta bevendo uno da tetrapack, chi si è
talmente votato all’apparenza da perdere gli ormeggi con la sostanza. Chi è
talmente impegnato a costruirsi un pulpito da non vedere i problemi − ben più drammatici e
concreti di un quarto d'ora di fama − di chi la vita la vive, se ci riesce.
Mentre rimuginate sulla spinosa
questione del senso del cibo-spettacolo, e forse sognate anche voi un piatto della mamma,
potete continuare a gustarvi il giallo della Holt… questo sì ben cucinato.
Brani tratti da Anne
Holt, La ricetta dell’assassino,
Einaudi, Torino 2013, pagg. 22, 26-27 e 59.
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