giovedì 28 agosto 2014

Una mou che non fa ingrassare

La gente pensa che l’amore dovrebbe essere come una caramella effervescente: sorprendente, eccitante e rinfrescante. O come il cioccolato fondente: misterioso, adulto e amaro. O come il guscio di una Smarties che aspetta di essere rotto. Oppure friabile come il caramello; duro come il croccante alle arachidi; doloroso come il frammento appuntito di toffee. Secondo me, invece, l’amore è come una mou. Dolce e profumato, sempre gradito [...] un sapore che rimane anche quando tutto il resto è svanito. Quando lo assaggi, non lo dimentichi più

In queste poche righe c’è tutta la filosofia del libro: questo romanzo è una caramella. Ha un buon sapore, ti addolcisce la bocca... e non ti lascia nulla. Personaggi e trama inconsistenti come una mou, ma ben confezionati per ingolosire.
Jenny è una precaria londinese che da anni ristagna in una relazione con un bambinone viziato e mammodipendente. Superata la fatidica soglia della trentina senza la fede al dito (orrore!), la fanciulla viene mandata dalla madre nel narcotico paesino di Lipton con il pretesto di seguire il trasferimento di una vecchia zia nella casa di riposo, dopo aver messo in vendita il suo delizioso cottage col tetto di paglia e il negozio di caramelle che ha fatto la felicità di grandi e piccini per generazioni. E occupandosi delle faccende famigliari nella pittoresca campagna inglese, inutile dire che Jenny riscopre il fascino della vita di provincia: bellissimi paesaggi, la natura tutto intorno, rapporti umani più diretti e carrettate di bei maschi dai bicipiti in vista.
Vi ricorda un Harmony? Lo è.
Non mancano tutti gli ingredienti di prammatica: l’amico gay, le gaffe alla Bridget Jones, il negozio di dolcezze. Non manca nemmeno l’aristocratico bello e tenebroso autorecluso nella dimora sulla scogliera, con un segreto tutto da svelare. 
Vi sto dicendo di non leggerlo? No. Quando il morale è sotto i tacchi, è meglio leggere qualcosa di dolce anziché spazzolare intere scatole di bonbon...
Brano tratto da Jenny Colgan, La bottega dei cuori golosi, Piemme, Milano 2013, pag. 414

giovedì 21 agosto 2014

Tempo di ribes rosso



Se girate per boschi umidi dell’Italia settentrionale (e nell’estate 2014 i boschi sono sempre stati a dir poco umidi) vi potrebbe capitare di vedere i cespugli di ribes rosso, che arrivano a maturazione tra giugno e settembre. Questo arbusto delle Sassifragaceae è caratteristico soprattutto dell’Europa centro-settentrionale e dell’America settentrionale, e se ne contano circa ottanta specie. Da noi ne crescono spontanee tre: il ribes rosso (Ribes rubrum), il nero (Ribes nigrum) e il bianco (Ribes grossularia o uva spina).
Le decorative bacche rosse vengono consumate così come sono e in macedonia, oppure sotto forma di gelatine, marmellate, succhi, sciroppi, liquori, salse... Ma non sono solo belle (link). Come tutti i frutti di bosco, risultano infatti antiossidanti e antinfiammatorie e potenziano le difese immunitarie. Grazie agli acidi organici, agli zuccheri, alle mucillagini e alla vitamina C, bacche e foglie risultano blandamente diuretiche e disinfettanti (il che è utile per contrastare la cistite e i problemi renali). Inoltre, gli acidi malico, tartarico e citrico − che procurano al ribes rosso il caratteristico sapore − pare che stimolino la secrezione dei succhi gastrici e depurino il fegato.
Rispetto al ribes nero, più ricco in vitamina C e antociani (i pigmenti che donano il colore scuro anche all’uva), il rosso contiene più piridossina o vitamina B6, che tra le sue tante funzioni è precursore di diversi neurotrasmettitori (come quelli legati al benessere e all’attenzione, ovvero serotonina e dopamina) e modulatore degli ormoni steroidei.
Se quindi un cespuglio di ribes rosso occhieggia tentatore nel sottobosco o nell’orto di qualche amico, cedete alla tentazione: non saranno trendy come altre bacche molto più esotiche, ma vale la pena riscoprire il gusto di queste piccole sfere di benessere e serenità.

La ricetta dell'assassino



Il piatto appena atterrato davanti a Billy T. sembrava un’installazione. Fissò interdetto il cibo prima di alzare coltello e forchetta, ma senza sapere da dove cominciare.
− Fegato d’anatra su un letto di funghi di bosco con asparagi e un accenno di amarena − declamò il cameriere. − Bon appétit!
Gli asparagi si ergevano sopra il fegato come un tepee indiano.

Billy T. coordina le indagini per l’omicidio di Brede Ziegler, patron di un ristorante da vip in cui l’apparenza è tutto. Per capire in che ambiente si dovrà muovere, l’ispettore va a pranzare nell’Entré e nota che è stato pensato per essere in assoluta controtendenza rispetto al precedente minimalismo norvegese: sontuose tovaglie drappeggiate fino al pavimento, lampadari prismatici e candelabri d’argento, persino piccoli podi per alcuni tavoli. Eppure il cibo tanto pomposamente presentato lo lascia assai perplesso. Che diavolo significa "un accenno di amarena"?

Il cameriere, che aveva appena portato via i resti catastrofici dell’antipasto, fece un nuovo tentativo. Questa volta il piatto era più grande, ma il cibo altrettanto indecifrabile. Isole di purè di patate erano state allestite a mo’ di fortino intorno a un trancio di sogliola guarnito con striscioline sottili di qualcosa che doveva essere carota e decorato sul dorso da una misteriosa pappetta verde.
− Sembra il gioco dello Shangai, − constatò Billy T. sconsolato. − Come diavolo si mangia una cosa così? Cosa cavolo c’è di sbagliato in una bistecca con le patatine fritte?

Se anche a voi questo genere di ristoranti suscita un sentimento tra la perplessità e l’astio, vi immedesimerete sia con i detective che devono trovare chi ha ucciso lo chef, sia con i suoi assassini. Già, perché Ziegler è stato avvelenato e pure pugnalato. Perché sin troppe persone avrebbero voluto ammazzare questo indisponente personaggio più ciarlatano che cuoco, uno che nella sua camaleontica scalata al successo si era addirittura cambiato nome per nobilitarsi, uno che aveva un appartamento da rivista di design ma una cucina piccola e senza “cuore”.

Il frigorifero assomigliava al caveau di una banca. Era in acciaio massiccio e diviso verticalmente, con il freezer a sinistra e il frigo vero e proprio a destra. Nella parte del freezer, era inserito un dispenser con tasti diversi per il ghiaccio, il ghiaccio tritato, l’acqua e l’acqua gassata. Pareva un fortino preposto a difendere un deposito enorme di cibo, invece conteneva soltanto tre rullini fotografici, una confezione di burro e due bottiglie di champagne.

Magari anche a voi è venuto il dubbio che lo chef tanto osannato del momento per i suoi arditi accostamenti e le tecniche ai confini della NASA vi stesse bellamente prendendo per il naso? Che l’innovativa creatività fosse pirotecnica vacuità?
O forse vi stimola istinti omicidi chi disserta di coltelli giapponesi come fossero Stradivari, chi ordina vini costosi ma non saprebbe capire se ne sta bevendo uno da tetrapack, chi si è talmente votato all’apparenza da perdere gli ormeggi con la sostanza. Chi è talmente impegnato a costruirsi un pulpito da non vedere i problemi − ben più drammatici e concreti di un quarto d'ora di fama − di chi la vita la vive, se ci riesce.
Mentre rimuginate sulla spinosa questione del senso del cibo-spettacolo, e forse sognate anche voi un piatto della mamma, potete continuare a gustarvi il giallo della Holt… questo sì ben cucinato.
Brani tratti da Anne Holt, La ricetta dell’assassino, Einaudi, Torino 2013, pagg. 22, 26-27 e 59.



domenica 17 agosto 2014

Delitti e formaggi



Il formaggio, si sa, non fa tanto bene alla nostra salute: alza i livelli di colesterolo nel sangue, provoca disturbi digestivi, pare addirittura favorire il cancro. Ma di certo non fa alcun male se è… formaggio letterario. A meno che non si sia protagonisti di un romanzo come Delitti e formaggi, certo.
Tra un ocra della Mauritania e un gorgonzola, un caglio caprino turcomanno e uno stinking bishop, il lettore viaggia con i Trencom tra sentori di fieno e noci, abetaie basche e salamoia, su e giù per la storia, quella vera e quella adattata alla vicenda fantastica partorita da Giles Milton (che fa curiosamente rima con stilton).
Chi sono i Trencom? I membri di una famiglia che vanta da secoli gli esperti di formaggi più quotati d’Inghilterra nonché fornitori della casa reale, e sempre grazie a una particolarissima caratteristica: un naso lungo e aquilino con una gobba semisferica sul ponte. Un naso dall’eccezionale olfatto che permette a Edward Trencom, l’ultimo discendente, di capire che qualcuno si è introdotto nelle sue cripte perché vi ha lasciato

l’odore penetrante e salmastro dello chevrotin des aravis […] ma non la tipica cremosità. Il sale di una blonde de gâtine senza il leggero cenno di ipermaturità. Un odore intenso, certo, ma non lo emanava nessuno dei tremilacentoventisei formaggi fermentati e non, né gli yogurt conservati nella cripta.

Sotto la bottega si dirama infatti un complesso sistema di cripte in cui la famiglia tiene dal Seicento i suoi pregiatissimi esemplari, divisi per aree geografiche. Da qui parte una ricerca che spinge Edward a ritroso nel tempo e nel suo albero genealogico per capire come mai tutti i suoi antenati diretti siano incappati in una fine misteriosa in Grecia. Ma che c’entrano generazioni e generazioni di formaggiai londinesi con le tumultuose vicende balcaniche che vedono avvicendarsi imperatori bizantini, guerriglieri turchi e dittature militari? Cosa nascondono le cripte della loro bottega, oltre a samsoe danesi, chevrotin della Loira e cornhusker del Nebraska?
I Trencom celebrano da secoli i loro riti nella cripta principale, con l’altare in pietra dove i monaci dell’originaria abbazia di Saint Egbert un tempo celebravano le loro messe e consacravano pane e vino.

All’epoca presente un rito assai diverso si svolgeva a questo altare. Sulla lastra di pietra si tagliavano e annusavano formaggi, li si esaminava e assaggiava. [...] Saint Branoc avrebbe scagliato i suoi serpenti velenosi addosso ai Trencom, maledicendoli per il sacrilegio. L’abate Henri de Clairvaux li avrebbe mandati al rogo come eretici. I Trencom invece non ci vedevano nulla di blasfemo. Tutt’altro. Mentre tagliavano i formaggi sull’altare, mangiando alla mensa di Cristo, si sentivano i custodi di una lunga e sacra tradizione.

Affermazione quanto mai profetica, tra sacro e profano. E non andiamo oltre per evitare di vanificare le sorprese della trama. Però quest’ultima considerazione ci stimola a interrogarci sulla nostra vita e sul nostro atteggiamento verso il cibo, che sia pane, vino, formaggio o altro: quanto di rituale c’è anche nel nostro rapporto con la tavola? 
Quanto di sacro e quanto di profano?
Brani tratti da Giles Milton, Delitti e formaggi, Ponte alle Grazie, Milano 2008, pagg.73-74 e 65.

sabato 16 agosto 2014

Lunga vita all'aglio



Photo Hotblack
Nel nostro immaginario collettivo, l’aglio fa parte di quella schiera di ingredienti che nel tempo hanno goduto di alterne fortune.  Nell’antichità le sue potenti virtù terapeutiche lo rendevano degno addirittura di entrare nelle tombe dei faraoni egizi, mentre nel Medioevo veniva considerato «roba da poveri» perché era facilmente reperibile. Mentre molte spezie arrivavano da quelli che allora erano i confini della Terra, per cogliere l’aglio, i porri o la cipolla bastava infatti andare nel proprio orticello. E se qualcosa è alla portata di tutti, da che mondo è mondo chi ama considerarsi uno dei pochi lo snobberà!
Ma siete sicuri che l’aglio sia così banale? Se volete sfruttare questa bizzarra estate ben poco adatta alla vita da spiaggia per sperimentare la varietà di aglio tipica della zona in cui siete, sappiate che nella nostra penisola si trovano tre tipi di Allium sativum e uno di Allium ursinum:

− bianco, come il Grosso piemontese e i Bianchi piacentino, napoletano, calabrese; è il più diffuso e il più intenso di sapore;
− rosa, come quelli di Agrigento o napoletani; è delicato e deperibile, tanto che in genere si consuma novello;
− rosso, come quelli di Sulmona e di Trapani; è molto piccante e ben conservabile.
− ursino, selvatico, dai bulbilli più allungati e un sapore simile al porro.

Il sapore e gli effetti benefici di questo bulbo derivano da varie componenti, come l’antibiotica garlicina, l’antitumorale ajoene, l’olio essenziale e le mucillagini, ma soprattutto dalla reazione chimica che s’innesca quando entrano in contatto per schiacciamento il solfuro di allile (in altri termini, il composto a base di zolfo che gli dona l’inconfondibile aroma) e l’enzima allinasi. Per questo l’aglio va schiacciato, spremuto o masticato.
Grazie a questo rude trattamento, per millenni il bianco bulbo è stato molto apprezzato per le sue molteplici virtù… anche queste più o meno gettonate secondo il periodo. Per esempio, un tempo era il vermifugo d’eccellenza, e come antibiotico, antisettico ed espettorante risultava utile contro le malattie infettive, dal raffreddore in su, e contro il mal di denti. A noi sembrerà poca cosa, ma centinaia di anni fa una tosse poteva portare alla tomba e un ascesso dentale alla setticemia. Così, forse la leggenda della treccia d’aglio per allontanare i vampiri è nata proprio come metafora del rimedio contro i mali, anzi, il Male, tanto è vero che si pensava proteggesse anche dalla peste nera e persino dal veleno dei serpenti.
Ultimamente, invece, la diffusione delle cosiddette «malattie del benessere» lo hanno particolarmente rivalutato per abbassare la pressione sanguigna − un’interessante meta-analisi a questo link − e i livelli di colesterolo nel sangue, ridurre il rischio trombosi, coadiuvare nel trattamento del diabete nonché come anticancro, antiossidante e potenziatore delle difese immunitarie. E fervono anche gli studi sulla sua azione contro i disturbi erettili (probabilmente grazie allo stesso meccanismo vasodilatatore che fa abbassare la pressione) e sulle virtù dimagranti ed estetiche. Come antisettico contrasta infatti la formazione di foruncoli e altre impurità della pelle, e come antiossidante rallenta la formazione delle rughe.
Se poi volete abbassare la pressione o aggiudicarvi qualche altro effetto benefico ma non vi piace avere un alito e un sudore a dir poco respingenti, provate a eliminare il germoglio verde che sta in mezzo agli spicchi oppure consumarlo sotto forma di tintura madre, infuso, compresse, capsule e simili. Non darà il gusto di un buon piatto di aglio, olio e peperoncino, ma nemmeno vi renderà dipendenti a vita da altre molecole ben poco naturali e con un foglietto illustrativo lungo quanto un’autostrada...

La zia Antonia sapeva di menta



Entrando nella stanza, Ernesto Cervicati si era improvvisamente fermato davanti a quel muro fantasma, ma dotato di una sua solidità. Aveva annusato. Una, due, tre volte, tirando su discretamente con il naso.
Non c’era da sbagliarsi, era odore di aglio.
“Aglio”, confermò tra sé muovendo appena le labbra.
Poi fece due passi verso il letto. [...] Molleggiando sulla punta dei piedi, l’Ernesto si avvicinò ancora un po’. E cominciò a percepire quell’altro odore. Familiare, una carezza. Inspirò profondamente. Poi si chinò verso il viso della zia.
Il suo alito sapeva di menta. Come sempre.
Zia Antonia sapeva sempre di menta.

Quanto sono importanti gli odori nel delineare il quadro complessivo che ci siamo fatti di una persona? Spesso li sottovalutiamo perché nella nostra società dell’immagine diamo priorità a come appariamo: l’abbigliamento, gli accessori, la scelta dei colori e tutto ciò che ci mettiamo sulla pelle (dal trucco ai tatuaggi) la fanno da protagonisti. Invece potremo non accorgercene, ma lasciamo anche un’impronta olfattiva nella percezione e nella memoria altrui. Con l’odore comunichiamo se ci piace mangiare etnico o andiamo avanti a cavolfiori, se abbiamo qualche problema di salute, se siamo nervosi o preoccupati, per esempio. Eppure in genere ci facciamo caso solo quando l’odore di qualcuno fa uno scarto dalla norma.
Il romanzo di Andrea Vitali parte da questa considerazione: perché nella camera di zia Antonia, che di solito sa di menta per le tonnellate di caramelline che l’anziana donna succhia da una vita come unico vizio, un giorno improvvisamente grava una densa cappa d’aglio? Se lo chiedono il nipote Ernesto, poi le suore dell’ospizio, poi il medico del paese e ovviamente il lettore allorché si scopre che zia Antonia ha deciso di fare lo sciopero della fame e del silenzio per una questione di soldi. Così, seguendo l’odorosa scia dell’incipit veniamo a sapere che a Bellano ci sono due persone che sanno decisamente d’aglio e hanno a che fare con le finanze della zia. E di motivi per abbassare la pressione con quella cura alternativa ne hanno entrambi…
Certo, alla fine del romanzo non tutto quadra, ma trama e personaggi di Vitali sono come sempre divertenti e umanamente realistici. Nelle varie figurine e nelle loro caratteristiche psicologiche, nei vizietti meschini e nelle comiche fragilità tutti noi riconosciamo sicuramente qualcuno che appartiene alla nostra cerchia quotidiana.
Ma provate anche a fare un esperimento: di che cosa sanno le persone che vi stanno più vicine?
Brano tratto da Andrea Vitali, La zia Antonia sapeva di menta, Garzanti, Milano 2011, pag. 7