L’intera cucina era insolitamente pulita, quasi bizzarra. A parte le pere, ogni boccone di cibo era sigillato e separato dal resto del mondo. Barattoli di verdure, vasetti di salsa, riso intrappolato in una scatola di gomma. Mi mancava il modo in cui la signora Brown lasciava scivolare cipolle e avocadi in cesti di fil di ferro nella dispensa. E in quel momento mi tornò in mente la cucina della mia infanzia, dove ogni cosa sembrava essere parte integrante del cibo. La farina e il tavolo erano una cosa sola. La pentola appesa nel focolare oscuro profumava perennemente di zuppa. I sacchetti di cotone contenenti i fagioli e le patate erano liberi di respirare la stessa aria. La cucina di Cathy, invece, sembrava trattare il cibo con sospetto.
Tre
cucine a confronto: quella di Cathy Thompson, quella della signora Brown e
quella che appartiene al lontano passato della protagonista, Helen. Le ultime
due saranno anche materialmente diverse perché separate da intere generazioni,
eppure condividono la multisensorialità dell’approccio. Della vita hanno sapori
e odori, e il fisiologico caos che richiede un sano rapporto con il cibo. Per
cucinare devi sporcarti e sporcare, sbucciare cipolle, infarinare il piano di
lavoro, far alzare nell’aria il vapore della zuppa.
Chiudere
tutto nei barattoli, nelle pellicole, nelle dispense, rendere la cucina uno dei
tanti locali perfettamente puliti e inodori della casa − casa senza libri
tranne la Bibbia, e dove addirittura la stanza dell’adolescente Jenny è altrettanto
perfettamente pulita e ordinata della cucina − getta una luce sinistra su tutta
una filosofia di vita.
Sarà
anche rassicurante, ma è davvero vita quella ermeticamente sigillata in un
barattolo di vetro?
brano
tratto da Laura Whitcomb, Riflessi di un pomeriggio d’inverno,
Sperling & Kupfer, Milano 2006, pag. 138
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