giovedì 10 luglio 2014

Il ristorante con un solo tavolo



Dopo le atmosfere agghiaccianti delle Quattro casalinghe di Tokyo sentiamo il bisogno di una portata giapponese più leggera, dal sapore morbido ed elegante. Il ristorante dell’amore ritrovato pare perfetto allo scopo, sennonché vita e morte sfumano di continuo uno nell’altro, il macabro viene descritto in termini ora spiazzantemente delicati, ora crudi come nei romanzi nipponici spesso accade.
Il romanzo si apre con la protagonista che torna a casa dal lavoro, una sera, e scopre che il fidanzato indiano − l’uomo dalla pelle che sa di spezie, con cui dorme mano nella mano da tre anni − le ha portato via tutto, dal mortaio di epoca Meiji al coltello italiano a tutti i preziosi attrezzi di cucina collezionati negli anni con mille sacrifici.
Lo choc la porta a scappare da Tokyo all’improvviso, facendo tabula rasa del presente, proprio come aveva fatto da ragazza quando aveva abbandonato la casa materna in mezzo alle montagne − tra il Monte delle Tette e il nulla − per approdare nella capitale. Nel viaggio a ritroso verso le sue radici, in cui si ritrova sorprendentemente muta, la giovane Ringo ripensa al rapporto difficile con la madre Ruriko, alla nonna che l’aveva accolta in città e aveva intessuto un legame fatto di sapori e gesti di cucina, alla propria decisione di diventare cuoca e all’insolita veglia funebre che aveva fatto la sera in cui, tornando a casa dal lavoro in un ristorante turco, aveva trovato la nonna serenamente morta vicino a un piatto di ciambelle appena fatte. Senza chiamare nessuno, Ringo si era seduta accanto alla nonna e piano piano, nella notte, aveva mangiato tutti i dolci.

La cannella in polvere mista a zucchero di canna di cui erano cosparse e i semi di papavero dell’impasto davano loro un sapore delicato che non potrò mai dimenticare. Erano state fritte dolcemente in olio di sesamo ed erano grandi abbastanza per farne un unico boccone. Ogniqualvolta ne mettevo una in bocca e cominciavo a masticare, mi tornavano in mente le giornate trascorse in compagnia della nonna, dalla consistenza soffice come schiuma e piacevoli come il crogiolarsi al sole. (pag 13)

Come con le madeleines di Proust, anche qui tutti i sensi e i ricordi concorrono a dare profondità al semplice gesto del mangiare. Il presente s’intreccia con il passato, il dolore della perdita alla dolcezza dell’affetto, il sapore di zucchero e cannella con la sensazione del sole sulla pelle. Ognuna è un boccone perfetto come unico e perfetto è ogni singolo ricordo.
Ringo torna quindi ad abitare con la madre, ma è una Ringo diversa da quella che era scappata da ragazzina perché tutto ciò che facciamo o ci succede ci plasma e ci modifica. Come il cibo, che metabolizziamo per vivere e crescere, tutte le nostra esperienze diventano parte integrante di noi.
Anche portandoci a evolvere in contrapposizione a qualcosa.
Ecco allora perché, se la madre ha uno snack bar volgare e aperto a tutti, Ringo crea invece un ristorante raffinato ed esclusivo, nel senso che è microscopico come il guscio di una chiocciola e con un solo tavolo: il Lumachino. E siccome la ragazza ha perso la voce, a parlare per lei saranno il curry alle melagrane e il nukazuke di mele, l’ochazuke al brodo di katsuobushi e i macarons rosa, i cibi che come per magia fanno innamorare e quelli dell’infanzia, quelli che fanno viaggiare attraverso i continenti e quelli che ti fanno sentire a casa...
E Ringo parla anche attraverso gli oggetti che attorniano il cibo, dall’arredamento del ristorante all’attrezzatura di cucina alle stoviglie che rendono diversa la più semplice delle tavole e si accordano alla singola portata, lontano dalla standardizzazione dei servizi completi. Quelli che arrivano sulla tavola del Lumachino sono pezzi rari, un'eredità matrilineare che la nonna aveva regalato a Ruriko e questa passa alla figlia, con tutti i suoi significati.

C’erano tra l’altro bei bicchieri colorati d’epoca vittoriana e di epoca Taishō, vecchie ciotole vietnamite decorate risalenti al periodo del protettorato di Annam, antichi piattini di porcellana Imari, piatti da zuppa bianco candido della Richard Ginori e persino calici da champagne di cristallo baccarà ormai fuori produzione.

Mentre assistiamo alla creazione del ristorantino e delle ricette, vediamo anche delinearsi i personaggi che entrano nel raggio visivo e affettivo di Ringo, acquistando una luce sempre nuova e a tratti soprendente. Certi contorni si ammorbidiscono, altri si stagliano con implacabile nitidezza. Come il memorabile pranzo del finale, una sorta di grandiosa danza macabra che starà al lettore scoprire leggendo...
Nei suoi chiaroscuri, però, tutto il romanzo va assaporato con il cuore, lo stomaco e la mente. E, forse, quello che ci suggerisce è di cucinare come se ogni nostro commensale o istante fosse unico, di unire il candore del bambino all’esperienza del viaggiatore per capire che ogni portata ci può far scoprire, nelle sue mille scaccettature, il mondo.
Anche quello, vastissimo, dentro di noi.
Brani tratti da Ito Ogawa, Il ristorante dell’amore ritrovato, Neri Pozza, Vicenza 2010, pagg. 13 e 50.

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