La tavola come set di studio antropologico: questa la tesi
di Roberta Schira. Per esempio, anziché trascorrere i primi appuntamenti
esplorativi con un possibile partner al cinema o a passeggiare, meglio vederlo
all’opera in un ristorante.
Lui si aggiudica il posto migliore, lasciando alla
dama quello sul passaggio o accanto alla cucina? Tratta i camerieri con
sufficienza, ordina il vino facendo il superesperto, parla di sé tutta la sera?
Mmm. Quanto a lei, occhio se studia il menu per dieci minuti e poi ordina piatti con
mille varianti con/senza, peggio che mai se le varianti sono dietetiche come il
tiramisù al mascarpone di soia, ma è sinistro anche se, all’opposto, non sa
scegliere nemmeno un grissino. E sono eloquenti anche le scelte sulla
consistenza (molle/duro) e il colore (bianco/scuro).
Inoltre, vanno considerate con sospetto le potenzialità
erotiche tanto del commensale che si getta sul cibo e sbrana tutto in pochi
minuti senza quasi capire cosa sia, quanto dell’asceta che si nutre senza
manifestare alcuna emozione né a parole né con il corpo. E questo apre il tema
del cibo presentato con grande cura estetica ma in modo troppo cerebrale.
«Viviamo in una società cibocentrica dove però manca il piacere vissuto», dice
Roberta Schira. E aggiunge: «Anche chi rispetta le regole del galateo, ogni
tanto, deve essere in grado di mangiare con le mani».
Citazioni tratte da Roberta
Schira, Il nuovo bon ton a tavola e
l’arte di conoscere gli altri, Salani, Milano 2012
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